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“Dopo 20 anni di carriera ho deciso di ritirarmi, è stata una stupenda avventura con dei ricordi incredibili. Spero che vi sarete divertiti guardandomi, come io mi sono divertito a far parte del calcio”. Con queste parole, scritte tramite il suo profilo Facebook, dopo la partita pareggiata dai suoi New York Red Bull con i New England Revolution, che ha sancito l’eliminazione dei newyorkesi dai play-off, Thierry Daniel Henry appende gli scarpini al chiodo.
Gli esordi al Monaco e l’infelice parentesi alla Juventus
Annus Domini 1990. Arnold Catalano, talent scout del Monaco scopre un giovane 13enne che, in quel momento, si trova a giocare nell’Île-de-France, per l’Entente Sportive Viry-Châtillon. Quattro anni dopo, Arsène Wenger, allenatore dei monegaschi, lo fa esordire in prima squadra. Il ragazzo nel principato e sotto l’ala protettiva del suo allenatore cresce e mostra tutto il suo talento. Al Monaco rimane per 5 anni, nei quali conquista un campionato francese e nell’edizione della Champions League 1997-98 trascina i suoi fino alle semifinali con 7 gol, fissando un record per un giocatore transalpino. A Gennaio del 1999 arriva la prima grande svolta: la Juventus deve sostituire Alessandro Del Piero, in quel momento uno dei più forti giocatori d’Europa, infortunatosi gravemente al ginocchio. I bianconeri versano nelle casse monegasche la cifra record, per un giocatore francese, di 11 milioni di euro. L’avventura italiana dura solo sei mesi: la squadra bianconera guidata da Ancelotti chiude la stagione in maniera disastrosa e non bastano i 3 gol in 16 presenze da parte di Henry per evitare il tracollo.
L’Arsenal degli invincibili
I malumori di Titì sono tangibili e Arsène Wenger, nel frattempo passato all’Arsenal, lo vuole con sé e lo fa atterrare ad Highbury, alla ricerca della posizione perfetta per il suo pupillo che decide di spostare da ala a punta centrale. Dopo le prime fatiche di adattamento, Henry negli otto anni con la maglia dei Gunners diventerà icona, bandiera e leggenda del club. L’anno di grazia, quello che passa alla storia, è il 2003/2004. La squadra che poi fu chiamata degli Invicibili riuscì a collezionare, durante quella stagione di Premier League, 26 vittorie e 12 pareggi, numeri non raggiunti neanche dal recente Liverpool di Jurgen Klopp. Eppure in quell’anno tutte le big erano agguerrite e volenterose di raggiungere l’agognato obiettivo. Il Chelsea di Roman Abramovich, guidato da Sir Claudio Ranieri, aveva appena investito sul mercato 150 milioni di sterline, il Manchester United, dopo l’addio di Beckham, si preparava ad accogliere un giovane Cristiano Ronaldo, il Liverpool contava sulla spina dorsale inglese composta da Gerrard, Owen e Carragher; mentre il Newcastle poteva contare sul bomber di casa, Alan Shearer. 90 punti e il titolo di campioni di Inghilterra con 4 giornate d’anticipo e la striscia, considerando anche la stagione precedente e quella successiva, di 49 risultati utili consecutivi. Con l’Arsenal saranno 377 presenze condite da 228 gol e il rapporto viscerale con la società e i tifosi che gli fa guadagnare una statua all’ingresso dell’Emirates Stadium.
I titoli in blaugrana
Nell’estate del 2007, complici i tentennamenti di Arsène Wenger riguardo alla permanenza sulla panchina dei Gunners, il classe 1977, ormai campione maturo e affermato, decide di lasciare Londra e approdare al Barcellona di Guardiola per un cifra vicina ai 24 milioni di euro e andando a completare così un tridente devastante con Messi ed Eto’o. La prima stagione, al solito, è di adattamento e si conclude con un magro bottino di 15 gol e un deludente terzo posto nel campionato spagnolo. Nella stagione 2008/09 però, il Barcellona si laurea campione di Spagna e va a vincere la Champions League nella finale di Roma contro il Manchester United. Titì conquista l’unico grande trofeo per club che ancora mancava nella sua bacheca e con i suoi due compagni di reparto stabilisce il nuovo record di realizzazioni stagionali per un tridente di squadra spagnole, 72 gol, meglio di Puskas, Di Stefano e Del Sol. Nella terza stagione in blaugrana gioca poco e spesso gli viene preferito un rampante Pedro. Decide così di provare l’esperienza oltre oceano. A New York, con la maglia dei Red Bulls, resterà quattro anni. Nel mezzo una parentesi romantica di pochi mesi all’Arsenal, nell’inverno del 2012, in cui gioca 7 partite e realizza 2 gol. Torna di nuovo in America e ci rimane fino al 16 dicembre 2014.
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Classe infinita
Ci sono alcuni giocatori, alcuni artisti del pallone che con le loro giocate trascendono il tempo. Titì, cui l’assonanza tra nome e cognome suona a ritmo di filastrocca, porta con sé emozioni che trascendono il tempo. Eppure Henry, che di talento ne aveva tanto, non si è mai specchiato o arroccato nella sua personale prigione dorata interiore. Sempre umile, con lo sguardo rivolto sempre al se stesso del futuro, senza rimuginare sulle doti strabilianti rivelatesi già in gioventù. Un uomo alla costante ricerca della sua forma migliore, non come ossessione ma come un processo lento, graduale e contornato da estrema eleganza. Sinuoso nei movimenti, freddo davanti la porta. Thierry portava con sé lo stupore con cui maghi e prestigiatori ti fanno credere all’impossibile, alla magia, al trucco. E ogni volta in cui lo si vedeva segnare, non restava che dire alla Marianella: “Non so più cosa dirvi: questo è un fenomeno! Il meraviglioso Henry colpisce ancora! Alziamoci tutti in piedi, lo faccio anch’io”. È stato un lampo, una scintilla. Dotato di un’inconscia fantasticheria e di un’innata capacità di prendere il mistico tra i propri piedi per mostrare i suoi sconfinati talenti al popolo del calcio.