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Quando un uomo muore, un capitolo non viene strappato dal libro, ma viene tradotto in una lingua migliore. La frase è del poeta britannico John Donne, famoso per aver scritto “Nessun uomo è un’isola”. Mino però aveva il mondo tra le mani: il calcio era il suo pianeta, non un piccolo atollo. E’ andato via troppo presto ma per quello che ha costruito e lasciato è come se avesse vissuto 7 vite, come i gatti. Lui però era di razza pregiata, minimo un persiano.
Di Raiola potrei dire quasi tutto. Non apprezzavo solo le doti manageriali immense del mio corregionale (lui nato a Nocera, io a Torre del Greco: figli della Salerno-Reggio Calabria), ma ero affascinato dalla personalità dell’uomo. Un vincente nato: non lasciava nulla al caso e sapeva prevedere il futuro. Ecco, tra le mille mefistofeliche doti che gli appartenevano Mino aveva sviluppato negli anni una invidiabile lungimiranza. Un rabdomante del Regno di Eupalla. Il fiuto gli consentiva di investire su giovani promesse che quasi sempre si rivelavano campioni. Aveva un caratterino niente male: marcava i presidenti e depistava i giornalisti. Però era corretto. Se gli propinavi un tuo scoop su un suo assistito, dopo settimane di duro lavoro, non ti spediva in fuorigioco.
Gli ho voluto bene per un coacervo di motivi: venivamo dalla stessa terra, si era fatto da solo costruendo un impero, ma non era arrogante come certi potenti. Mino era come lo vedevi: mai in giacca e cravatta, quasi sempre casual. In estate adorava i bermuda anche se doveva trattare con Agnelli o Berlusconi. Era legatissimo a Moggi, Galliani e Marotta. Lucianone fu il primo big del calcio a credere in lui. Conobbi Mino proprio a Torino: cenavamo nello stesso ristorante di Porta Nuova, gestito dal super tifoso granata Vittorio Urbani. Vista la stazza, anche se giovanissimo, non passava inosservato. Con Moggi costruì l’operazione Nedved. Il manager di Monticiano convinse Cragnotti, Mino l’amletico ceco, legatissimo all’ambiente laziale. Raiola gli consigliò di passare alla Juve e forse ancora oggi Pavel ricorderà nelle sue preghiere l’ex agente passato a miglior vita.
Ma in assoluto il ricordo che più mi lega a Raiola passa per Ibrahimovic. Passò quasi un anno ai tavoli di Urbani per convincere Moggi, poco attratto (inizialmente) dall’investimento. Temeva il suo carattere ribelle (da Amsterdam ebbe notizie poco rassicuranti) e la non eccellente media goal dello svedese. Mino ancora una volta ebbe lungimiranza. Capì che Zlatan aveva bisogno di un ultimo step per spiccare il volo. L’arrivo di Capello fu determinante: Don Fabio rassicurò Moggi e puntò le sue fiches sul perticone dell’Ajax.
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Il resto è storia: gli ultimi 22 anni di calciomercato recano la sua inconfondibile griffe. L’ottanta per cento dei colpi da prima pagina erano legati ai purosangue della scuderia. Mino monarca assoluto della materia. Seppi da amici comuni della brutta malattia: ma lui ha continuato a combatterla senza riverenze o paure: avrà affrontato l’ultimo miglio con il consueto coraggio, guardando negli occhi la morte. In fondo il giorno che temiamo come ultimo è soltanto il nostro compleanno per l’eternità. Lo ha scritto Seneca e può andare bene per Mino. Un genio senza lampada, un attore che non aveva bisogno di nessun copione: recitava seguendo il suo istrionico istinto. Per lui l’addio sarà solo un ponte verso l’infinito. l’abisso è solo dei mediocri.