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Quello di Gianni Improta è un nome che molti tifosi del Napoli ricorderanno sicuramente con affetto. Il centrocampista è stato uno dei giocatori più amati dai tifosi durante la sua militanza in azzurro negli anni Settanta, in una squadra piena di giocatori napoletani come lui, Antonio Juliano, Vincenzo Montefusco, Salvatore Esposito e un giovane Giuseppe Bruscolotti. Nella giornata di lunedì 11 aprile Aniello Pauciullo e Antonio Ingenito, che scrivono questo articolo, sono stati suoi ospiti, al “Virgilio Sporting Club” per un’intervista esclusiva per la rubrica Napolifan su Footballnews24. Sullo sfondo della splendida cornice di Posillipo, in un mite e soleggiato pomeriggio di primavera, veniamo accolti, con gentilezza e cortesia, da un signore pacato e dal portamento elegante, ospitale ed educatissimo, acuto e intelligente, onesto ma sempre attento al senso della misura. Un napoletano ed un italiano d’altri tempi, con i modi di fare dei “lord” di britannica memoria.
Ci rendiamo presto conto, insomma, che Antonio Ghirelli, firma storica e prestigiosa del giornalismo partenopeo e nazionale, non si sbagliava affatto quando gli affibbiò il soprannome di “Baronetto di Posillipo”, per la sua compostezza dentro e fuori dal rettangolo di gioco e per il suo quartiere di provenienza, dove Gianni nasce, nel 1948, e muove i suoi primi passi da uomo e calciatore. La tecnica sopraffina ne fa un centrocampista dotato, ma concreto ed essenziale nello stile, senza mai concedersi a gesti funambolici eccessivi. Esordisce con il Napoli, grazie ad un grande personaggio della storia azzurra, nel 1967. Poi finisce, per uno strano caso del destino, in comproprietà con la SPAL, per poi essere nuovamente riportato all’ombra del Vesuvio, ove resta 4 anni, fino al 1973, quando viene ceduto alla Sampdoria. La piazza partenopea insorge. Uno striscione recita: “Si può vendere il Vesuvio, Improta no”. Troppo tardi. Un solo anno a Genova, uno ad Avellino e altri 4, splendidi, a Catanzaro, dove fa la storia, salvo poi concedersi un’altra stagione a Napoli e chiudere la carriera con le esperienze al Lecce e alla Frattese, nel 1984.
Comune denominatore di questi campionati sono i gol, gli assist, le giocate utili e i rigori implacabili. Nel mezzo, una convocazione in Nazionale di cui si vocifera a metà anni Settanta ma che, sventuratamente, non arriverà mai. Appesi gli scarpini al chiodo, esperienze a vario titolo come allenatore e dirigente sportivo, Al di qua e al di là del terreno di gioco e delle scrivanie, “Gianni il Bello” conosce, per averli ricoperti, tutti i ruoli principali dell’organigramma di una società di calcio. Negli anni napoletani di Diego Armando Maradona, il campo sportivo “Virgilio” diventa uno dei rifugi fidati del Pibe de Oro, che qui si allena e viene a disputare mitologiche partite di calcetto e calcio tennis. Gianni e Diego, così diversi ma così sinceramente legati da un rapporto di pura e disinteressata amicizia. Il Baronetto di Posillipo è uno degli ultimi cavalieri indomiti di un calcio d’altri tempi, che non si adatta e non si arrende alle volgarità di quelli d’oggi e che (r)esiste solo nei racconti appassionati di chi ne ha fatto parte.
Come ha visto il Napoli contro la Fiorentina? Quali crede siano stati i problemi della squadra in una partita così deludente?
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“Non mi sono piaciute alcune scelte di Spalletti. Personalmente, avrei preferito sostituire Zieliński e Fabián Ruiz alla fine del primo tempo, facendo entrare Mertens e Demme, giocandotela con “Ciro” da sottopunta. Ho visto il polacco spaesato, mai nel gioco, girovagava per il campo. Ci poteva stare anche Lozano per Politano, anche far uscire Insigne, anche se secondo me ha giocato molto bene. Ieri però Spalletti, secondo me, ha toppato. Purtroppo, per quanto bravi tecnicamente, i due sono in un periodo di forma non ottimale sia fisicamente che mentalmente. Quindi bisogna dare fiducia a chi ha dimostrato di star meglio. Mertens non si può tenere fuori, nelle ultime sei gare dovrebbe giocare sempre, a mio parere, perché è quello che può inventarti la giocata e toglierti dai guai.”
Nonostante la sconfitta di ieri, con il pareggio del Milan, che resta a soli due punti di distanza, lo Scudetto può essere ancora un obiettivo, anche tenendo conto del calendario delle tre contendenti?
“Assolutamente sì. Le tre squadre coinvolte, anche se oggi, se pur per una minima percentuale, possiamo considerarne anche una quarta (la Juventus, ndr), hanno sei/sette partite da giocare, con l’Inter che deve recuperare la gara col Bologna. Purtroppo, tutte e quattro devono sperare in passi falsi altrui, perché non ci sono più scontri diretti. Il Napoli è ancora lì, ma bisogna vincere e sperare che le altre facciano qualche errore. Da qui non si scappa, inutile fare calcoli. Il calcio è semplice, nonostante qualcuno voglia farlo diventare più complicato“.
Passiamo alla sua carriera, quella di un napoletano che ha realizzato il sogno di vestire la maglia della squadra che ama, in due diverse occasioni. La prima volta, purtroppo, ha perso la possibilità di giocare sotto la guida di Luís Vinício, con un Napoli spettacolare. Come andò la vicenda?
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“Vinício è un grande uomo, prima di essere stato un grande calciatore e poi un grande allenatore. Ho festeggiato con lui i suoi 90 anni, pochi mesi fa, mi ha invitato personalmente. Ho anche avuto difficoltà a trovargli un regalo, mia moglie ha dovuto chiedere un suggerimento alla sua! Nel 1973, quando uscì la notizia del suo arrivo sulla panchina del Napoli, Ferlaino come ‘regalo’ voleva portare in squadra Mariolino Corso. Lui disse che non ne aveva bisogno, perché aveva me. In quel periodo dovevo anche sposarmi, e chiesi a Ferlaino se ci fosse il pericolo di una cessione. Purtroppo, per questioni economiche, la società si ritrovò a dovermi cedere alla Sampdoria, e la notizia arrivò alla vigilia del matrimonio. Anche al compleanno di Luís ho rinfacciato questa cosa al presidente (ride, ndr). Purtroppo Vinício, che era appena arrivato, non poté fare nulla, ma quando tornò, nel 1979, il primo acquisto che richiese fui io. Aveva mantenuto la parola, da grande uomo quale è, di farmi giocare nel suo Napoli“.
Un altro napoletano che ha realizzato quel sogno ma che, purtroppo, andrà via a fine stagione,è Lorenzo Insigne. Quanto può essere complicato, da napoletano, vestire quella maglia in questa situazione, con la certezza che tra pochi mesi la tua vita cambierà?
“Personalmente non riesco ad entrare nella testa di Lorenzo, non so cosa stia provando. Posso dire quello che ho provato io quando lasciai Napoli, anche in questo caso non di mia iniziativa. Ero costretto dalla situazione, era anche un’epoca diversa, rifiutare un trasferimento voleva dire trovarsi a casa, senza lavoro, senza un contratto. Sicuramente lui sarà molto tormentato, ma ha fatto una scelta di vita, non solo a livello economico, che è comunque qualcosa che chiunque considera”.
Durante la sua seconda esperienza al Napoli ha vissuto quella partita in cui, contro il Perugia, 91 mila tifosi fischiarono Paolo Rossi, che aveva rifiutato il trasferimento. Cosa ricorda di quella vicenda?
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“Ricordo che non giocai quella partita, perché ero infortunato. Su Paolo però devo raccontare una cosa, perché la storia è più ampia. Quando fui riacquistato dal Napoli, nel 1979, Francesco Degni, grandissimo giornalista del Corriere dello Sport, grande conoscitore di calcio, mi chiamò invitando me e mia moglie a pranzo a casa sua. Lì trovammo Ferlaino, seduto in un angolo. Il presidente mi chiese se avessi la possibilità di parlare con Rossi, per convincerlo a venire. Io gli telefonai, e lui aveva anche accettato il trasferimento. Mentre però si stava perfezionando l’affare si inserì la Juventus, che lo convinse a rifiutare il Napoli per poi prenderlo l’anno dopo. Per questo avemmo difficoltà a rimpiazzare Savoldi, non riuscimmo a trovare un altro attaccante importante e arrivò Speggiorin. Facemmo un campionato anonimo, e Vinício diede le dimissioni dopo dei contrasti con Sergio Troise, giornalista de Il Mattino. Subentrò Angelo Sormani, per le ultime quattro giornate. Visto che eravamo già salvi, convinsi Angelo a far giocare Nino Musella, delle giovanili, al mio posto. Ho fatto quello che Omar Sívori aveva fatto per me, tanti anni prima, in un’amichevole contro la Salernitana, quando mi consegnò la sua maglia a fine primo tempo”.
Visto che lo ha nominato, che ricordo ha di Omar Sívori, che era al Napoli nel periodo in cui lei era nelle giovanili?
“Omar aveva un debole per noi delle giovanili, che giocavamo con la prima squadra in amichevole, e fu proprio lì che mi notò, insieme ad Esposito, Abbondanza, Montefusco e Juliano. El Cabezón, lo chiamavano. È rimasto molto affezionato alla piazza, fino alla fine. Fu anche protagonista della famosa maxi-rissa con la Juventus, insieme a Dino Panzanato, che fu anche mio compare d’anello al matrimonio. Purtroppo se ne è andato due anni fa, era malato di Alzheimer. Io andavo a trovarlo spesso, e in una di queste occasioni, per stimolarlo un po’, gli chiesi: ‘Dino, ti ricordi quella scazzottata con la Juve?’ Lui alzò la testa, disse ‘Sívori ebbe nove giornate’, e poi tornò come prima”.
Era un Napoli di gente che non aveva mezze misure, in campo si faceva rispettare. Uno di questi era Giuseppe Bruscolotti, con cui lei ha giocato. Com’era “palo ‘e fierro” come compagno?
“Peppe era uno che non parlava mai, ma quando andava in campo avvertiva l’avversario: ‘Di qua non si passa, altrimenti sono guai’. Fisicamente parlando era spaventoso, poi iniziò anche ad avere dimestichezza con i piedi e divenne ancora più forte. Vinício infatti, da buon brasiliano, amava molto i giocatori più tecnici, e cominciò a far allenare Bruscolotti anche sotto questo aspetto. Nel calcio, più hai la palla tra i piedi e più migliori. Bisogna avere confidenza con il pallone, e Peppe avendolo spesso si sciolse, divenne più sicuro anche in quel senso“.
Parlando di quel grande Napoli vincente, il campo Virgilio, vicino al quale ci troviamo ora, era uno dei “rifugi” preferiti di Diego Armando Maradona. Ha qualche aneddoto da raccontare, qualche storia sul suo rapporto con lui?
“Maradona veniva ad allenarsi qui, la mattina presto. Il campo più grande era in terra battuta allora, e lui, insieme a Fernando Signorini, si legava degli pneumatici di camion al busto e doveva trascinarli per tutto il campo, per rafforzarsi. Sollevava tantissima polvere, quando mi affacciavo e vedevo il polverone sul campo capivo che era arrivato Diego (ride, ndr). Giocava anche a tennis, sul campo che abbiamo qui, era straordinario anche in quello, e a calcio-tennis, era davvero uno spettacolo. Faceva cose con la pallina tra i piedi che noi neanche con le mani sapremmo fare. Una volta, ricordo, nel campo più piccolo venne a giocare suo fratello Hugo con dei suoi amici contro dei miei clienti, amici che conosco da sempre. Io e Diego eravamo proprio qui, in questo ufficio nel quale stiamo parlando ora. Ad un certo punto della partita Hugo contestò un rigore e si generò una discussione molto accesa. Diego scese per difendere il fratello, e dovetti intervenire io a dividerli e risolvere il parapiglia che si era creato. Lo portai nello spogliatoio e rimasi con lui lì, convincendolo a scusarsi. Lui non voleva, ma alla fine lo fece, ma non è più venuto qui per un anno. Poi mi richiamò Signorini e tornammo in buoni rapporti, e ci siamo visti spesso quando Giuseppe Bruscolotti dava delle cene nel suo ristorante, 10 maggio, che ora non ha più. Sono convinto che se fosse rimasto a Napoli sarebbe stato più protetto e probabilmente sarebbe ancora vivo”.
Un grande rimpianto è la Nazionale: dopo aver fatto tutta la trafila delle selezioni minori, non ha mai trovato spazio tra gli Azzurri. È qualcosa che avrebbe voluto andasse diversamente?
“Sì, è qualcosa che mi è dispiaciuta. Sono stato convocato in tutte le Nazionali giovanili, ma non ho mai avuto la possibilità di esordire in Nazionale maggiore. Ne parlai con Valcareggi prima di un quadrangolare di vecchie glorie della Nazionale con Danimarca, Russia e Polonia, e lui mi disse che per vari motivi non ci fu mai la possibilità di chiamarmi. È un mio grosso rammarico. Al mio posto fu convocato Claudio Merlo, della Fiorentina, che in una partita contro i Viola mi marcò a uomo e segnai una tripletta, quindi in un certo senso una rivincita me la sono presa (ride). Il primo fu su rigore, sono sempre stato bravo a calciarli perché mi isolavo e non facevo caso ai 90 mila tifosi sugli spalti. Ho calciato 12 rigori col Napoli e ne ho segnati 11, su quell’unico sbagliato ho preso il palo. Un altro gol di quella partita lo segnai dribblando il portiere ed entrando con il pallone in porta. Non dimenticherò mai la corsa sotto la Curva B con la 10 sulle spalle“.
Come è diventato il rigorista di quel Napoli, nonostante ci fossero tanti grandi campioni in rosa?
“Eravamo al torneo di Viareggio, ero in comproprietà con la SPAL, ma mi chiesero in prestito per giocare la competizione. Partita contro il Dukla Praga, su un campo pesantissimo, finisce 0-0 e si va ai rigori, e io tiravo dal dischetto. All’epoca infatti, quando si andava ai rigori, calciava sempre la stessa persona, non tutta la squadra (in questo modo il Napoli superò il primo turno della Coppa Italia 1961-62, poi vinta, ndr). Calciai il primo rigore a fil di palo, rasoterra, e il portiere, che era un omone di quasi due metri, non ci arrivò. Per vincere dovetti calciare sei rigori, nei primi cinque non sbagliammo mai né io né il mio avversario. Lui poi sbagliò il sesto e io feci gol, e così passammo il turno. In tribuna c’era l’allenatore Beppe Chiappella, che mi vide e decise di tenermi e farmi calciare i rigori. Il Napoli per riprendermi dalla SPAL dovette pagare anche 30 milioni delle vecchie lire. In una gara contro la Fiorentina, al momento di calciare un rigore, Altafini aveva già preso palla, ma Chiappella decise che dovevo tirare io. Feci gol e vincemmo a Firenze dopo 25 anni. Purtroppo, però, José si risentì, e infatti diventare il rigorista del Napoli mi portò ad attirarmi alcune antipatie, perché ero il ragazzino che si prendeva la platea“.
In quel Napoli giocava anche Ottavio Bianchi, che fu poi l’allenatore del primo Scudetto e della Coppa UEFA. Com’era di persona?
“In campo aveva un caratteraccio. Fuori dal campo ci potevi anche stare, ma quando si trattava di parlare di calcio era maniacale, molto duro. In allenamento mi fece un intervento che mi incrinò una costola quando lo superai, ma senza nessun tipo di vanità. Io, nella mia carriera, non sono mai stato un funambolo, non ho mai neanche cercato un tunnel. Lo feci solo una volta, involontariamente, a Sandro Mazzola durante un Inter-Napoli a San Siro. Ero sulla sinistra, e davanti a me c’era Burgnich, che mi bloccava lo spazio. Non potevo passare, e Mazzola mi tallonava. Feci finta di continuare, e con l’esterno spostai il pallone verso il centro. Sandro per fermarmi allungò la gamba, ma il pallone passò in mezzo e io andai via. Non lo avessi mai fatto. Mi rincorse per il campo e me ne disse di tutti i colori! (ride, ndr)”.
Alla Sampdoria, come compagno di squadra, trovò un certo Marcello Lippi .
“Avevo già conosciuto Marcello alla compagnia atleti di Bologna, quando abbiamo fatto il militare insieme. E successivamente abbiamo anche fatto il corso da allenatori insieme, anche se poi io ho preso un’altra strada e sono diventato dirigente nella mia seconda città, Catanzaro”.
A Catanzaro, appunto, ha trovato invece Massimo Palanca, un altro grande giocatore.
“Con Massimo c’era un grande affiatamento, con gli assist di uno all’altro avremmo fatto più o meno cento gol in due in quattro anni. Lui aveva un piede piccolo, portava il 36, ma toccava la palla in un modo straordinario. Poi era anche piccolino, non era certo un Gigi Riva, che era grosso e tirava anche di potenza, tanto che quando calciava le punizioni nessuno voleva andare in barriera“.
Sempre a Catanzaro ha avuto modo di giocare con Claudio Ranieri, che è anche lui diventato allenatore, e sotto la guida di Gianni Di Marzio, recentemente scomparso. Che ricordo ha?
“Con Claudio ho giocato quattro anni a Catanzaro, dove appunto c’era Di Marzio, che poi ho avuto anche a Lecce. Pensava che non lo volessi lì, dopo che non riuscì a riportarmi a Napoli quando divenne allenatore degli azzurri, ma in realtà abbiamo sempre avuto un buon rapporto. Con Di Marzio vincemmo il campionato di Serie B col Catanzaro e al primo anno raggiungemmo anche i playoff per la Serie A a Lecce. Gianni era molto ‘scolastico’, tatticamente giocava come si giocava una volta, a uomo. Era bravissimo a motivarti, ti portava sempre a dare tutto, e fisicamente ti preparava alla grande. Sapeva anche gestire qualsiasi situazione, era molto furbo. Un episodio in particolare lo spiega benissimo. Alla prima giornata di Serie A affrontammo il Napoli, che aveva Chiarugi. Lui era bravissimo sui calci d’angolo, creava delle parabole incredibili. Di Marzio chiamò il giardiniere dello stadio, che si chiamava Procopio, e gli disse di tagliare l’erba della zolla sui calci d’angolo. In questo modo Chiarugi, quando si sarebbe trovato a battere un corner, avrebbe dovuto interrompere la sua rincorsa e fare un saltello.
Claudio era un calciatore molto serio, che ha mantenuto questo suo tratto anche dopo. È un uomo di sani principi, tutto d’un pezzo. Ha sempre rispettato tutti e ha sempre preteso rispetto. Sarò sincero, non mi aspettavo facesse una carriera del genere perché caratterialmente non credevo potesse gestire tante personalità. Quando eravamo a Catanzaro era un po’ introverso, ma successivamente è cresciuto molto ed è diventato un allenatore di grande successo. A Napoli è stato sfortunato, è arrivato nell’immediato dopo-Maradona, in una situazione molto difficile da gestire, ma dopo ovunque sia andato ha sempre fatto un grandissimo lavoro, raggiungendo naturalmente il massimo con il trionfo straordinario con il Leicester”.
Chiudiamo il trittico di esperienze post-Napoli con il Lecce, nel quale giocava quel Pasquale Bruno che molti, della nostra generazione, ricordano soprattutto per Mai Dire Gol.
“Pasquale debuttò proprio nell’anno del mio secondo trasferimento al Lecce. Era rognoso, ma a differenza di tanti altri calciatori ‘cattivi’ era anche tecnicamente molto dotato. Aveva quel qualcosa in più che lo differenziava da tutti gli altri nel suo ruolo. Non tirava mai indietro la gamba, ma tecnicamente era nettamente superiore alla media. Non mi meraviglio della carriera che ha avuto, ha pienamente meritato tutto“.
Dopo il ritiro è stato anche dirigente, per la Juve Stabia, e ha lasciato uno splendido ricordo lì. Come si è trovato a lavorare a Castellammare e cosa ricorda di quel periodo?
“Nel mese di luglio 1990 ero al mare, sulla mia barca. Mi si avvicinò Mario Sommella, responsabile del Posillipo, che mi spiegò che la Juve Stabia, pur avendo vinto il campionato di Serie D, non poteva iscriversi alla C2. Allora parlai con Nicola Colonna, che mi fece trovare una società con i conti a posto, senza una lira di debito, ma che aveva bisogno di una fideiussione per l’iscrizione al campionato. Allora per quell’anno, con le mie garanzie, Gianfranco Carraturo divenne presidente della Juve Stabia e io feci l’allenatore. Prima di tutto questo, però, avevo parlato con Roberto Fiore. Gli avevo spiegato la situazione e lui, che stava partendo, mi promise di tenere in considerazione la cosa al suo ritorno. Quando tornò gli mostrai cosa avevo fatto, lui prese la società e ha fatto grandi cose per Castellammare. Per questo sono rimasto nel cuore dei tifosi, che mi avevano seguito passo per passo. Mi sento grato per il rispetto che hanno nei miei confronti, vuol dire che mi sono comportato bene“.
Il rapporto con i tifosi, come ha sottolineato, è importantissimo, e sembra che in questo periodo ci sia un po’ di distacco tra alcuni supporter e le squadre. Lei cosa ne pensa e come agirebbe a riguardo?
“Dovunque sia stato, ho sempre provato a dialogare con i tifosi. Volevo entrare nella mente del tifoso, capire perché faceva quello che faceva. In tutta la mia carriera ho sempre avuto un ottimo rapporto con tutte le tifoserie con cui ho lavorato, perché parlavo con loro. Ho sempre dialogato, esprimendo il mio punto di vista e ascoltando il loro, mantenendo le distanze ma anche il rispetto. Così facendo, nessuno mi ha mai creato problemi, e anzi le questioni si risolvevano insieme. Oggi sembra ci sia un muro, anche fisicamente. Non è possibile che i tifosi, quando vanno a vedere la partita, debbano essere chiusi. Le persone in quella situazione si sentono animali in gabbia. Bisogna considerare la possibilità di togliere le barriere, secondo me, perché tanto, con la tecnologia di oggi, chiunque si azzardi a fare qualcosa viene identificato immediatamente e giustamente punito con un Daspo“.