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Haram, illegale. Così sul New York Times l’imam Hossein Ghayyoumi bollava la Zumba, messa al bando dalla federazione dello Sport iraniana in quanto attività che rischia di far cadere in tentazione i fedeli islamici. “In quanto religioso, ho imparato che la danza e la musica sono dei mezzi per cercare il piacere e dunque haram, o illegali”. Circoscrivere le possibilità di un corpo, segregare il movimento libero, togliere la dimensione festosa dalla propria carne. È questa la strategia del regime religioso degli ayatollah in Iran, regime che sta reprimendo con violenza le proteste di un intero popolo. Tra protese e danze per le strade, il sangue sulle mani della polizia religiosa iraniana continua ad aumentare. Dall’altra parte proprio il ballo, così come il velo e i capelli tagliati, è diventato il simbolo di un popolo che proprio attraverso quei simboli vuole cambiare il proprio destino.
Danzare per la rivoluzione: nel 1998 la vittoria dell’Iran contro gli USA fu riscatto di un popolo
Danzava infatti nelle strade il popolo iraniano nella notte del 21 giugno 1998, giorno in cui avveniva in Francia il primo incontro nella Coppa del Mondo tra Stati Uniti e Iran. Mediaticamente fondamentale, la vittoria per 2-1 dei Leoni di Persia contro la compagine americana segnò il primo, storico ritorno ai Mondiali del Team Melli dopo la Rivoluzione islamica. L’ayatollah Khomeini vietò infatti alla squadra di partecipare ai mondiali del 1982 e del 1986, sopprimendo uno spirito di libertà che esplose dopo la storica vittoria. Il popolo iraniano danzò tutta la notte, concedendosi alcolici e lanciando via il velo dalla testa delle donne per una sola notte di gioia. “I Pasdaran glielo lasciarono fare, perché erano tifosi prima di tutto”, riportò un funzionario della FIFA iraniano.
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Pulisic firma il passaggio agli ottavi degli Stati Uniti: tutta la paura dell’Iran
Una vittoria che significò riscatto. Riscatto per i 500mila morti nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein appoggiato dagli Stati Uniti. Riscatto per un popolo umiliato da sé stesso e dalle ingerenze esterne, un popolo non libero di esprimere la propria gioia. Un popolo che, ventiquattro anni dopo, ha sperato in una vittoria per raggiungere in Qatar un risultato insperato ma sfiorato, agognato e poi frustrato dalla maggiore convinzione in campo degli Stati Uniti.
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La partita decisiva del Gruppo B non ha portato con sé lo stesso carico socio-politico dell’incontro del ’98, ma anzi si è svolta senza grandi terremoti. In campo gli americani hanno semplicemente dominato l’Iran, andando in vantaggio con Pulisic servito puntualmente da un Sergino Dest in grande spolvero. Gli attacchi rapidi degli States sulle fasce hanno messo in grande difficoltà la squadra allenata da Queiroz, non in grado di impostare una manovra offensiva continua ed efficace.
Minacce e paura, il regime influisce il Mondiale: dall’inno sussurrato all’arresto di Ghafouri
Liberi dalla pressione, i giocatori statunitensi si sono permessi il lusso di giocare una partita di calcio; gli iraniani, probabilmente no. La notizia delle minacce del regime alle famiglie dei calciatori aveva destato preoccupazione per un gruppo di uomini che nella prima partita aveva deciso di non cantare l’inno. Unica forma di protesta possibile per chi ha paura di parlare, una protesta simbolica appunto, come quella della danza e dei capelli. Protesta che tuttavia è stata subito fatta rientrare nei ranghi, con le labbra di Azmoun e compagni a sussurrare le parole del Sorud-e melli e-Iran, inno introdotto non a caso nel 1990 inneggiante all’eterna durata della Repubblica islamica dell’Iran. “Mi sono guardato attorno e ho visto solo volti sereni, nessuno era in ansia o mostrava segni di panico”. Le considerazioni del difensore degli Stati Uniti Tim Ream danno l’esatta dimensione dei differenti stati emotivi delle due squadre.
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L’arresto alla vigilia di Iran-Galles: il calcio non è solo calcio
Gli Stati Uniti calmi e in controllo, l’Iran rabbuiato ed impaurito. Paura giustificata dopo la protesta dell’inno contro l’Inghilterra: il presidente del Consiglio comunale di Teheran Mehdi Chamran aveva avvertito che “Nessuno può insultare il nostro inno o la nostra bandiera”. A questo – e ai ripetuti scontro mediatici tra la stampa americana e quella iraniana nelle conferenze stampe qatariote – si era aggiunto l’inquietante arresto alla vigilia di Iran-Galles del calciatore Voria Ghafouri. L’ex capitano dell’Esteghlal di Teheran si era pubblicamente schierato a favore della minoranza curda contro il regime degli Ayatollah.
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Segnali di un potere che non può permettersi più quello sfogo di gioia tra canti e balli per strada che fu nel 1998. Il regime deve limitare tutto ciò che sfuggendo al controllo centrale e che potrebbe alimentare la protesta delle strade di Teheran agli occhi del resto del mondo. Strade che nella notte dopo la sconfitta contro gli Stati Uniti non hanno cambiato la loro veste.
Il regime soffoca anche la gioia del pallone: in Iran la resistenza passa per il silenzio
Il gol di Pulisic ha deciso un match calcisticamente non così interessante come altri, rete che tra l’altro non è stata festeggiata dal giocatore del Chelsea a terra dopo lo scontro con il portiere Beyranvand. Un 1-0 soffocato, quasi rispettoso per l’intimo dolore degli altri. Loro che in campo sono scesi con una pressione sulle spalle che travalica ogni immaginazione di chi dall’esterno non può capire il pericolo. Un gol che non regala uno strappo alla regola, perché la danza rimarrà per la protesta iraniana un simbolo contro il regime. Un’arma simbolica da esasperare per le strade sfidando fucili veri che a costo di non cedere continuano a sparare sul popolo danzante. Come il libro della Poetica di Aristotele sulla commedia e il riso viene censurato nel romanzo di Umberto Eco Il nome della Rosa dal veleno sulle pagine, così il regime dell’Iran castra la libertà.
La sconfitta dell’Iran soffoca la speranza: la protesta continua discreta e silenziosa
Si vieta la danza, l’espressione e la libertà dei corpi, negando anche la possibilità di giocare a calcio senza pensieri nella testa. L’allenatore dell’Iran Queiroz aveva invitato tutti i suoi giocatori a ballare e a cantare in caso di vittoria, esorcizzando le paure dell’animo. “Purtroppo alle persone in Iran non interessa niente della Coppa del Mondo”. Seper Mikae, quarantatreenne iraniano residente a Los Angeles, esprime così al New York Times un punto di vista brutale nella sua verità. “Quando le persone muoiono per strada, non c’è motivo di festeggiare. È un momento tragico per gli iraniani. Non abbiamo nessuna gioia, nemmeno al Mondiale”.

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Nessuno sa cosa sarebbe successo se l’Iran avesse vinto contro gli Stati Uniti. Chissà se quella impresa sarebbe diventata propaganda per il regime o l’ennesima arma nell’inventario rivoluzionario del popolo persiano. Una speranza strozzata, nascosta dietro a quella bandiera iraniana mostrata allo stadio dalla quale era stato ritagliato lo stemma della Repubblica Islamica. Una protesta silenziosa e discreta davanti al mondo, simbolo di una lotta ben più sanguinosa tra i confini dell’Iran.