Cercare di raccontare la storia di Josè Mourinho può essere relativamente semplice se ci si sofferma solamente ai freddi eventi, ai trofei vinti e alle tappe della biografia di uno dei migliori allenatori della storia del calcio. D’altro canto, se si vuole compendiare la figura quasi mitologica dello Special One, imbrigliarne il carattere, spiegarne la mistica psicologia, allora il discorso si fa tanto più complesso quanto più affascinante.
Questo perché Mourinho è stato, è e sarà molto più di un allenatore. Qualcosa che sia avvicina molto al genio visionario, ma che ha anche una praticità unica e concreta: un attore amante della polemica, un indomito condottiero di battaglie contro tutti e tutti, dentro e fuori dal campo, uno sciamano che arriva dal nulla e riesce a imbrigliare i fili del destino e a tesserli a suo piacimento.
Il principio di tutto
Josè Màrio dos Santos Félix Mourinho nasce il 26 gennaio 1963 nella piccola città portoghese di Setùbal, a pochi chilometri da Lisbona. Fin dai primi anni di vita, il piccolo Josè respira l’aria inebriante del rettangolo verde di gioco e degli spogliatoi grazie al padre Felix, portiere del Vitòria Setùbal in prima divisione portoghese. Dopo aver giocato anche nel Belenenses, Mourinho Felix decide di ritirarsi e di diventare allenatore nel 1974. La carriera da giocatore di suo figlio Josè comincia nelle giovanili dell’Uniao Leiria, mentre l’esordio in prima squadra arrivò con la maglia del Rio Ave allenato proprio da suo padre.
Crescendo, Mourinho prova a imporsi nel mondo del calcio come difensore, ma i suoi sogni di gloria non trovano riscontro in una realtà che alla fine lo costringe a ritirarsi prematuramente a 24 anni. Nel prepartita di una gara in cui stava per partire titolare a causa dell’infortunio del difensore titolare, Mourinho è costretto a subire una grande umiliazione: il presidente della società, una volta venuto a sapere della formazione, minaccia il padre Felix di licenziamento qualora avesse fatto giocare il figlio titolare. L’anno successivo padre e figlio si trasferiscono così al Belenenses, anche se la successiva decisione del giovane portoghese è quella di scendere di categoria per giocare con continuità e separarsi dall’ala protettrice del papà. La carriera da calciatore di Mourinho però non decolla in nessun modo, e nel 1987 arriva la decisione di ritirarsi definitivamente per iniziare a lavorare come professore di educazione fisica nelle scuole medie.
Il riscatto, però, arriva nella sua nuova avventura da allenatore. Il giovane Mourinho comincia così a collaborare con il padre, il quale gli affida il compito di seguire le squadre avversarie e redigere i rapporti tattici. Mourinho ha la stoffa e sembra nato per fare l’allenatore, quindi arriva in maniera naturale la decisione di volare in Scozia per seguire il corso UEFA di Andy Roxburgh e acquisire così il patentino.
Nel corso degli anni si viene così a creare la personalità a dir poco ingombrante di Mourinho, il quale edifica attorno a sé un personaggio pieno di contraddizioni: è bene però ricordare che anche il giovane Josè aveva un idolo. L’idea di calcio e il pensiero che ne è alla base ha radici che risalgono alla figura quasi sciamanica del mitico tecnico ungherese Béla Guttmann, che negli anni ’60 riuscì a vincere due Coppe dei Campioni alla guida del Benfica. Proprio Guttmann era la figura carismatica pregna della stessa energia del mago Helenio Herrera che ha ispirato Mourinho nel suo percorso alla conquista del mondo del calcio.
Guttmann amava dare ordini precisi per sprigionare la dolce musicalità del suo credo calcistico e riteneva fondamentale la componente psicologica dietro ad ogni singolo calciatore, investigava le dietrologie delle storie personali e approfondiva gli stati d’animo di coloro che sarebbero divenuti i suoi soldati da mandare in battaglia.
Al termine di una lunga e pressoché infinita gavetta come assistente degli allenatori, tra cui l’indimenticabile Sir Bobby Robson, Josè Mourinho guadagna consensi come vice allenatore di Louis Van Gaal al Barcellona e gli venne concesso di guidare i blaugrana nella finale di Coppa di Catalogna nel 2000, vinta 3-0. È dal tecnico inglese che Mourinho impara l’analisi psicologica degli elementi dentro e fuori dal campo, mentre dall’olandese come una spugna apprende il pugno di ferro e l’autorevolezza, oltre al magnetismo indecifrabile del grande Bela Guttmann.
Il prodotto di questo big bang è a dir poco clamoroso, inspiegabile ed intrigante. Come riportato da Jorge Valdano nel suo libro Le undici virtù del leader: “Mourinho possiede un grande fascino mediatico, che quando vince lo trasforma in eroe e quando perde in caricatura. Il suo linguaggio ha avuto la potenza del vincitore infallibile e qualsiasi cosa dicesse sembrava una rivelazione”.
Lo Special One
Dal Barcellona, Mourinho passa al Benfica e poi al Porto, dove ha finalmente la grande occasione per giocare a carte scoperte e far conoscere al mondo le sue abilità. È il gennaio 2002: il Porto sta vivendo una stagione molto difficile e si ritrova senza allenatore. La dirigenza decide di puntare così proprio su Josè Mourinho, che fino a quel momento non aveva ancora un vero e proprio curriculum come allenatore. L’impatto del tecnico portoghese è piuttosto immediato con tanto di qualificazione alla successiva Champions League centrata.
Mourinho, alla guida del Porto, compie un vero e proprio miracolo vincendo prima la Coppa Uefa e poi la Champions League. Un traguardo a dir poco clamoroso, considerato il valore tecnico della squadra a disposizione del tecnico portoghese. La gara cruciale di quella cavalcata, però, non è la finale: il match che trasforma il giovane promettente allenatore nello Special One si disputa il 9 marzo 2004 all’Old Trafford, in occasione del ritorno degli ottavi tra Porto e Manchester United.
Al termine della partita, quel che resta ai giorni nostri è una sola incredibile immagine: la corsa sfrenata di Mourinho per festeggiare l’insperato passaggio del turno grazie alla rete a tempo praticamente scaduto di Costinha. Il Porto vince la Champions League, consegnando alla storia il tecnico portoghese. Il traguardo europeo, però, è solo il punto di partenza per la creazione di qualcosa di molto più grande.
Mourinho passa al Chelsea nel 2004 e, nella storica conferenza stampa di presentazione, si autoproclama Special One. L’esperienza coi blues si rivela un trionfo con tanto di vittoria della Premier League al primo tentativo, subendo in totale soltanto 15 reti nelle 38 partite di campionato: la squadra si compatta, crea un bunker difensivo in cui ogni parola del mister è un ordine preciso da portare fino in fondo a qualunque costo. Lo Special One conquista l’Inghilterra, divide l’opinione pubblica e si prende con la forza un posto nell’Olimpo del calcio. Il meglio, però, deve ancora venire e la storia di questo magnifico sport cambia nuovamente quando Josè Mourinho approda in Serie A e decide di sposare la causa dell’Inter nel 2008.
Apoteosi nerazzurra
“Ho espresso un’opinione da uomo libero in un Paese libero e subito ho sentito il rumore dei nemici. Questo mi piace, ho parlato e ora sono tutti qui“.
Le conferenze stampa del nuovo tecnico dell’Inter equivalgono in tutto e per tutto a uno spettacolo teatrale e il suo camaleontico magnetismo cattura le attenzioni sia dei supporters che degli acerrimi rivali sin dal primo momento. Mourinho è schietto e va dritto al sodo, eppure ogni sua affermazione può avere molteplici chiavi di lettura ed interpretazioni: questo si riflette in campo, dove una squadra già abituata a vincere in Italia con Javier Zanetti, Stankovic e Materazzi subisce un processo evolutivo raffinato e brutale, arrivando a produrre un gioco semplice, a tratti rudimentale. eppure sempre eclettico e sorprendente in base alle varie circostanze.
Mourinho, che aveva già girato l’Europa e che aveva già raggiunto l’Olimpo, costruisce la mentalità europea dell’Inter, ne innalza il calibro e lo spessore internazionale. La squadra agli ordini dello Special One è una macchina infallibile, gioca a memoria e mette in condizione ogni singolo di esaltarsi e di oltrepassare i propri limiti.
Mourinho, coi colori nerazzurri, diventa a dir poco infallibile. In questa condizione di onnipotenza calcistica, le sue parole sono squilli di guerra e ogni giorno viene prodotto calcio spettacolo, anche quando effettivamente non ci sono partite da disputare. C’è il calcio, dove il Mourinho allenatore analizza, propone, vince e c’è lo spettacolo, quando il Mourinho attore inventa, polemizza, prepara accuratamente il mazzo di carte con cui giocare.
La durezza delle sue esternazioni segna la storia moderna del calcio italiano, dalla celebre accusa di prostituzione intellettuale dei media fino allo slogan Zero Tituli. Nel pieno dell’esperienza all’Inter, Mourinho crea dibattiti, scuote gli animi di ogni sportivo e divide l’opinione pubblica a tal punto da riconciliarla: ammiratori e detrattori dello Special One diventano uniti dalla fervida curiosità di scoprire fino a che punto avrebbe alzato il livello della sfida all’intero sistema.
La simbiosi creatasi tra il tecnico e l’intero ambiente nerazzurro riesce a dare vita ad un legame chimico visto pochissime altre volte nella storia del calcio. Ogni partita dell’Inter ha una storia a sé e ogni critica, anche la più autorevole, finisce per sbiadire dinanzi ai successi roboanti raggiunti volta per volta, quasi come se fossero stati già programmati da un uomo che non crede nel destino, ma che plasma il futuro da sé e lo piega secondo la sua volontà.
Uno dei gesti più iconici dell’intera storia moderna del calcio italiano è senza dubbio quello delle famose manette di Mourinho, che gli costa tre giornate di squalifica e segna lo strappo definitivo tra la sua figura e l’ambiente circostante. Una sorta di punto di non ritorno che ha dato vita a numerose polemiche, le quali non fanno altro che rinforzare la sua posizione di guerra totale contro tutti e tutti. Che il suo fosse stato un gesto istintivo di un folle incendiario o che invece fosse stata una mossa accuratamente studiata e preparata in un precedente momento di lucida genialità, poco cambia, perché la storia ci insegna che spesso genio e follia coincidono.
L’Inter nel 2010 vince la Coppa Italia, trionfa in campionato e strappa di prepotenza la vittoria in Champions League. Davanti allo strapotere tecnico, fisico, tattico e mentale dei nerazzurri cadono tutte le squadre più forti d’Europa, a cominciare proprio dal Chelsea, imbrigliato e spazzato via negli ottavi di finale di Champions League, fino alla storica doppia sfida con il leggendario Barcellona di Guardiola e Lionel Messi. Se la gara di ritorno al San Siro è una clamorosa prova di forza dei nerazzurri, quella di ritorno è l’espressione massima del credo di Mourinho. Una infinita guerra contro gli alieni del tiki taka, trasformatasi nella strenua resistenza in inferiorità numerica nell’inferno del Camp Nou che invocava la remuntada.
La finale col Bayern Monaco, infine, incorona re l’allora principe Milito ed innalza lo Special One ad un livello superiore all’Olimpo. Le finali, si sa, non si giocano. Si vincono. E Mourinho ha in mente il disegno chiarissimo di come arrivare al trionfo. L’Inter conquista il Triplete, raggiungendo un traguardo storico per tutto il calcio italiano.
Come il mago famoso mago Houdini, Mourinho si libera dalle manette e, da buon esperto nelle fughe in grande stile, lascia l’Inter subito dopo la clamorosa conquista del Triplete. Nella stessa notte in cui arriva il trionfo in finale contro il Bayern Monaco, nelle segrete dello Stadio Bernabéu Mourinho esala il suo ultimo respiro nerazzurro in occasione dello stritolante abbraccio con Marco Materazzi.
Tra Spagna e Inghilterra
La nuova terra di conquista per Mourinho è la Spagna e, se l’Inter torna Italia con la Champions League, lui resta al Bernabéu per allenare il Real Madrid. Nel dicembre del 2011 l’edizione spagnola di Rolling Stone incorona Mourinho rockstar dell’anno, decidendo di rappresentare in prima pagina il personaggio, piuttosto che l’uomo.
Il tecnico in abito scuro e cravatta rossa, la barba incolta segnata da mille battaglie fatte e mille ancora da fare, le braccia incrociate a testimoniare che è nato pronto e lo sguardo di sfida al mondo intero. Questo è lo Special One, che in Spagna allena Cristiano Ronaldo e continua a fare da apripista verso nuove polemiche e nuove sfide individuali e collettive.
L’arma principale di Mourinho è la polemica e non ha paura di usarla neanche in Spagna, i conflitti con i colleghi e con il resto del mondo si moltiplicano e la sua dialettica pungente continua a tenere sotto scacco chiunque tenti di ostacolarlo. Arrivano così anche i trionfi alla guida dei blancos, a testimonianza del fatto che ogni nuovo capitolo della storia dello Special One racconta una storia diversa, ma il finale è sempre e comunque quello in cui lui solleva un trofeo e arricchisce il suo straordinario palmarès.
Anche in Inghilterra Mourinho non cambia registro: tra il ritorno al Chelsea nel 2013, l’avventura al Manchester United nel 2016 e la parentesi poco fortunata al Tottenham nel 2019, Lo Special One riesce comunque a lasciare un’impronta e a far parlare di sé. Celebre l’episodio in cui convoca una conferenza stampa alle otto del mattino, una sorta di breve incontro della durata di tre minuti per manipolare e indirizzare l’attenzione mediatica e spostarla su di sé. La seconda esperienza al Chelsea coincide con un’altra vittoria della Premier League, a testimonianza che i suoi modi di fare tanto brutali quanto seducenti continuano a funzionare terribilmente bene. Da non dimenticare neanche la vittoria del suo United in casa degli antichi rivali della Juventus, evento che Mourinho sfrutta ancora una volta per esibirsi in uno dei suoi soliti spettacoli iconici, sommerso dai fischi dello Stadium bianconero. Proprio con il Manchester United arriva la vittoria dell’Europa League, mentre con il Tottenham l’unico record da ricordare purtroppo è negativo ed è quello del numero maggiore di sconfitte in campionato (10) prima del suo esonero.
Dalle origini come assistente e vice fino alla prima panchina col Benfica, dai primi successi al Porto, fino all’ápeiron con l’inter, passando per la Spagna con tanto di tappe importanti in Inghilterra. La storia di Josè Mourinho è ricca, ma non è ancora terminata: il tecnico portoghese ha ancora un conto in sospeso in Serie A.
Non è ancora finita
L’ultima grande missione di Josè Mourinho si chiama Roma. Perché la capitale giallorossa ha disperatamente bisogno di un guru che possa ribaltare le avversità della storia, una sorta di acchiappasogni con l’intramontabile carisma di chi ha vinto tutto e che può assorbire le critiche più aspre in una delle piazze più difficili come quella romana, dove gli allenatori vengono fagocitati dalla pressione e dove “rivoluzione” è una parola che si mastica ogni giorno.
La sfida è tra le più proibitive, ancora una volta contro tutto e tutti, specialmente contro i sempre più numerosi detrattori che gli danno del “bollito” o, peggio, “finito“. È sempre più ridondante, stridente ed assordante l’opinione secondo cui Mourinho ormai non ha più nulla da dire e le sue idee sono ormai vecchie e sorpassate. Ma come si fa concretamente a sancire la fine di qualcosa che è anche difficile da circoscrivere, da spiegare e definire?
Il tecnico portoghese è riuscito a creare un fenomeno che va oltre il calcio giocato, oltre anche i tantissimi trofei conquistati, che raggiunge la testa e il cuore di ogni tifoso. Una guerra vinta e una ancora da combattere, una carezza velenosa agli avversari e un guanto di sfida al sistema, questo è Josè Mourinho: la verità è che tutti siamo ancora tremendamente curiosi di scoprire quale sarà il prossimo spettacolo dello Special One, che sia in campo o fuori. Mourinho non ha paura e la sua fame di calcio è più grande di qualunque ostacolo, perché Special One non si diventa per caso e perché lui non è di certo un pirla.

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