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19 settembre 1985. A Città del Messico gli orologi segnano le 7:16 del mattino, momento in cui le lancette cominciano a scandire ben oltre il semplice trascorrere del tempo: la città, infatti, inizia a tremare da cima a fondo. A distanza di 350 km dalla capitale messicana, purtroppo, prende forma un terremoto dotato di una forza apocalittica. Coincidenza vuole che Charles Richter, sismologo da cui la celebre scala d’intensità prenderà il nome, mancherà proprio qualche mese dopo. Ma è grazie a lui se si può prendere nota della potenza sismica generatasi sulle coste dell’Oceano Pacifico: magnitudo 8.1. Per rendere bene l’idea, il picco più alto mai raggiunto fu registrato in Cile vent’anni prima, specialmente nella città di Valdivia: 9.5. Il Messico si ritrova in ginocchio, con migliaia di vittime e danni incommensurabili.

Servirà la volontà, il coraggio e la consapevolezza di un popolo intero per alzare la testa e proseguire sulla propria strada. D’altronde, come recita un famoso proverbio messicano: “Pensavano di averci seppellito, ma non sapevano che noi eravamo semi”. Da questo spirito ferreo e guerriero, contro ogni aspettativa, l’intero paese si prepara ad ospitare uno degli eventi sportivi più importanti del globo. E infatti, il 31 maggio 1986, è tutto pronto: comincia il Mondiale della Mano de Dios, del goal del secolo e del sodalizio tra un uruguaiano di Cardona e El Pibe de Oro, Diego Armando Maradona. In pratica, comincia Messico 1986.
Da Colombia 1986 a Messico 1986
Se nell’edizione del ‘70 l’assegnazione era stata diretta, in questo caso i messicani prendono il posto della Colombia. Eppure, quando il governo di Bogotà ricevette la lista contenente i requisiti per ospitare il Mondiale, non sembravano esserci problemi: 12 stadi di almeno 40mila persone, quattro da 60mila, due da 80mila, una torre di telecomunicazioni nella stessa Bogotà e l’intero paese agevolmente collegato da una parte all’altra. Dulcis in fundo, Il congelamento delle tariffe alberghiere per i membri della FIFA a partire dal 1º gennaio 1986. Le condizioni arrivano direttamente nelle mani di Misael Pastrano Borrero, Presidente della Repubblica ed ex-ambasciatore negli Stati Uniti, il quale osserva rapidamente i vari punti e annuisce: “Possiamo farcela”.
Dal 1974 al 1982, però, l’organizzazione sarà fallace, al punto da chiedere aiuto al celebre scrittore Gabriel Garcia Marquez. Ma come? Uno dei più famosi scrittori di tutti i tempi può dare una mano ad organizzare dei Mondiali di calcio? Assolutamente si: il Nobel per la Letteratura ottenuto nel 1982 “compensa pienamente la vetrina che perdiamo con la Coppa del Mondo”. A parlare è Belisario Betancur Cuartas, nuovo presidente colombiano, il quale ha appena messo la parola “fine” alla speranza di assistere ai Mondiali in Colombia nel 1986.
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Rapida telefonata in quel di Zurigo, dove il 20 maggio 1983, con soli tre anni a disposizione, si vota la nuova sede: gli Stati Uniti ci provano in ogni modo, ma alla fine è il Messico a spuntarla. Sedici anni dopo, si torna nella patria di Italia-Germania, la partita del secolo.
I protagonisti della Coppa del Mondo

Doveroso parlare della Francia, anzi, precisamente del suo numero 10. Sono passati ben due anni da quando i suoi nove goal hanno portato Les Bleus sul tetto d’Europa, in occasione degli Europei del 1984. Va bene che la rivista che assegna il Pallone d’Oro si chiama France Football, ma per vincerlo tre volte di fila o ti chiami Lionel Messi (in quel caso, ben quattro vittorie consecutive) oppure sei Michel François Platini. E sarà proprio Le Roi a regalare il viaggio di ritorno agli Azzurri di Bearzot, battendo 2-0 l’Italia negli ottavi di finale. L’elenco di stelle, ad onore del vero, potrebbe continuare fino a riempire l’intera Via Lattea: il Brasile di Zico, Sócrates e Careca, la Germania del duo Rumenigge-Matthaus allenata da Beckenbauer, la Spagna di Butragueno, per non parlare della Danish Dymamite di Michael Laudrup, capace di rifilare sei goal all’Uruguay di Enzo Francescoli.
Inutile proseguire coi nomi, perché è il turno dell’Albiceleste, dove un ragazzo di 26 anni si sta allacciando gli scarpini. È alto 165 cm, pesa una settantina di kg e c’è la netta impressione che non si tratti di un giocatore, bensì di un asteroide pronto a spazzare via tutto ciò che si pone tra lui e quel benedetto trofeo mondiale. Nonostante giochi da ben due anni in Italia, squadre e tifosi avversari non riescono ancora ad inquadrarlo, poiché la domanda è sempre e solo una: “Ma questo da che pianeta viene?”. La stessa domanda, infatti, se la porrà più avanti l’altro vero protagonista di questo Mondiale: anche lui gioca le partite, ma al posto dei piedi, usa la sua straordinaria voce, l’unica in grado di narrare la prestazione sportiva più grande di tutti i tempi. Ma ci torneremo più avanti.
Dallo storico Marocco alla Mano de Dios

L’edizione della Coppa del Mondo presenta per la prima volta gli ottavi di finale, in alternativa al doppio girone consecutivo, ritenuto poco competitivo dalla FIFA. Cominciamo dalle rivelazioni: José Mehmed Benfaria, detto Josè Farìa, allenatore brasiliano. É lui l’artefice della storica qualificazione del Marocco alla fase ad eliminazione diretta, prima volta nella storia per una squadra africana. Già il loro girone meriterebbe un capitolo a parte: 0-0 con la Polonia, 0-0 con l’Inghilterra, 3-1 col Portogallo. Risultato: capolista del girone e qualificazione al turno successivo. Purtroppo per i marocchini, l’avversaria agli ottavi è la Germania Ovest, che vince di misura e accede ai quarti. Le altre sfide vedono Argentina, Inghilterra, Brasile, Spagna, Belgio, Francia e Messico avanzare.
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Adesso, mettete da parte tutte le squadre appena elencate, tranne due: Argentina e Inghilterra. Rapporti non idilliaci tra le due nazioni, anzi, la voce di Margaret Thatcher risuona prepotentemente nel popolo albiceleste: “Sapevamo quello che dovevamo fare, siamo andati e lo abbiamo fatto. La Gran Bretagna è di nuovo grande!”. Eh no, non ci siamo proprio, visto che sul taccuino immaginario di Diego Maradona c’è scritta nera su bianco la data del 14 giugno 1982: l’Inghilterra trionfa sull’Argentina, nel conflitto militare per le Isole Falkland.
Bene, quattro anni dopo non c’è spazio per armi ed eserciti: palla al centro, si gioca undici contro undici. Tralasciando l’iconico goal di mano di Diego, che lui stesso commenterà negli spogliatoi con “Un poco con la cabeza y otro poco con la mano de Dios”, è il momento dell’altro protagonista del mondiale, il telecronista uruguaiano citato prima. Il suo nome è Victor Hugo Morales, e a lui spetta il compito di raccontare il goal del secolo, dove Maradona lascia sul posto tutta l’Inghilterra, depositando in rete una palla che sa di vendetta pura. Perché quel giorno, almeno in parte, l’Argentina sentì di aver risposto a quel tragico giugno del 1982.
Maradona sul tetto del Mondo

29 giugno 1986. I tedeschi hanno archiviato la questione francese in semifinale, approdando al secondo epilogo mondiale consecutivo, dopo quello del 1982 perso contro l’Italia. Che squadra la Germania Ovest: i nerazzurri Rumenigge e Matthaus, il futuro giallorosso Rudi Voeller e il numero 10 Felix Magath, decisamente noto agli juventini, visto la finale di Coppa dei Campioni vinta dal suo Amburgo nel 1983 contro la Vecchia Signora.
Dall’altra parte, però, l’Albiceleste ha il suo aquilone cosmico, citando il solito Morales: Diego vuole sollevare la coppa al cielo, e mai come in quel momento vuole che la sua Argentina sia compatta e passionalmente focalizzata nel terminare quello splendido viaggio. Carlos Bilardo sa che Beckenbauer punta a limitare Maradona il più possibile. Che problema c’è? Diego non è solo, non lo è mai stato. L’Argentina segna due goal, nessuno di questi porta il nome del Pibe De Oro: Josè Brown e Jorge Valdano. Nonostante questo, se la Germania è sempre arrivata tra le prime quattro negli ultimi vent’anni di mondiali, un motivo ci sarà. Bastano sette minuti alla formazione di Beckenbauer: Rumenigge e Voeller confezionano il 2-2, lasciando impietriti i sudamericani.
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Ma è ora che la vera grandezza fa la sua comparsa, visto che il punto nevralgico della partita è il riassunto della leadership tecnica ed emotiva di Maradona. Circondato da cinque tedeschi, El Diez trova uno spiraglio per Jorge Burruchaga, un po’ come se stesse dicendo “Lo so, potrei prendermi la scena in qualche modo, ma la felicità di un popolo intero vale più della gloria personale”. Quella palla canta, anzi, urla incessantemente, come tutta l’Argentina nel momento in cui el Burru deposita in rete il 3-2 definitivo. Finisce Messico 1986: Diego Armando Maradona è sul tetto del Mondo. Diego Armando Maradona è immortale. Diego Armando Maradona è, e sarà sempre, il Calcio, quello con la C maiuscola.