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Ci sono alcune domande di natura irrisolte che come tali si ripropongono con una certa cadenza e che mai, forse, troveranno una vera risposta. Uno di quei quesiti è questo: sport e politica devono andare di pari passo o sono due rette parallele che non si incontreranno mai? Nonostante la complessità che un tale interrogativo può porre, la risposta si può trovare in un solo, non fisico, luogo: la storia.
La storia sportiva insegna che la politica non è mai estranea, insegna che la vita umana può essere direttamente collegata a qualsiasi disciplina. Lo sport insegna che, a volte, si è reso necessario per mandare messaggi, moniti, immagini per salvare vite, quando il potere voleva censurarlo. In Italia non è difficile trovare esempi: la bicicletta di Gino Bartali resterà per sempre il simbolo di come sport e politica si possono e si devono intersecare, perché l’essere umano va messo al primo posto, anche quando la guerra di qualcun altro vorrebbe fare credere il contrario. Se non si vuole restare ancorati al Bel Paese si può anche scivolare via dalla pelle dello Stivale e iniziare a girarci intorno: si può finire in Germania, per esempio, ricordando la figura di Luz Long. Spesso, il campione tedesco di salto in lungo finisce in secondo piano, dietro un altro personaggio altrettanto importante: Jesse Owens. Ma ci vuole coraggio, in un momento di tensione come quella tra la sua nazione e gli Stati Uniti d’America, per mostrare la propria sportività verso un ragazzo nero che non sarebbe arrivato neanche in finale, senza il suo aiuto, che non ha lasciato altro che le briciole per i suoi avversari e poi congratularsi con lui, sotto gli occhi del proprio regime dittatoriale.
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Dopo la guerra, va in Germania, ritrova mio figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa terra. Tuo fratello, Luz”
Lettera di Luz Long, dall’autobiografia di Jesse Owens
Nel mondo moderno, lo sport insegna che i diritti civili vanno conquistati anche lì dove apparentemente non c’entrano, perché non è solo un lavoro o uno stile di vita, ma un mezzo di straordinaria potenza e propagazione.
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Qatar 2022, l’edizione della polemica: ma il calcio è sempre calcio
Gli anni che hanno preceduto l’inizio del Mondiale in Qatar sono stati caratterizzati dalla polemica e come era facile immaginare, il calcio e la politica si sono incontrati e scontrati in centinaia di modalità diverse. Sulla discutibile costruzione degli stadi che sarebbe costata la vita a migliaia di persone, fino ai divieti imposti dal regime qatariota a ridosso dell’inizio della competizione iridata, sono tante le voci che si sono alzate contro l’organizzazione, ma la FIFA non ha voluto sentire ragioni, andando avanti spedita, senza curarsi di diritti o tutele, minacciando persino sanzioni per delle banali, quanto appariscenti, fasce arcobaleno per i capitani. Perché alla fine il calcio rimane calcio e la politica, almeno sul piano unico del gioco, è stata strappata dalle braccia dello sport e l’adrenalina per il campionato del mondo è esplosa come sempre, come è “normale” che sia.
Qatar 2022, la battaglia intestina dell’Iran e per l’Iran

In un contesto già tremendamente delicato, dove il confine tra quello che è tollerato e ciò che non è concesso risulta molto labile, la nazionale dell’Iran ha deciso di farsi avanti e di portare in campo una protesta nella protesta. La rappresentativa asiatica ha lasciato da parte l’astiosa domanda sul dualismo giusto o sbagliato dello sport e della politica che si intrecciano e mentre la guarda appassire, si espone davanti alle telecamere di tutto il mondo per mandare un messaggio al proprio paese.
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Solitamente, anche se questa tradizione è nata in tempi molto recenti, l’inno della propria terra natia si canta a squarciagola e con la mano sul cuore. Eppure i calciatori iraniani hanno deciso, nella prima gara dei Mondiali in Qatar giocata e persa 6-2 contro l’Inghilterra, di non pronunciarne neanche un verso, neanche una parola, sotto i fischi dei propri tifosi. Eppure, proprio tra quest’ultimi, molti hanno deciso di lanciare a loro volta un messaggio, esponendo striscioni e cartelli in favore della libertà femminile. È noto come nella Repubblica islamica dell’Iran la quiete di vivere sia andata persa molti mesi fa, dopo la morte di Mahsa Amini, quando il popolo orientale ha iniziato a dar vita a pesanti manifestazioni di protesta, per difendere le donne, che vivono secondo norme restringenti e prive di diritti.
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Dobbiamo accettare che le condizioni nel nostro paese non sono giuste. Noi siamo qui, ma questo non significa che non dovremmo essere la voce del popolo”
Ehsan Hajsafi durante la conferenza stampa prima di Inghilterra-Iran
Il silenzio dell’undici iraniano era un silenzio già parzialmente annunciato dal capitano della nazionale, Ehsan Hajsafi, che nella conferenza stampa alla vigilia non aveva lasciato spazio a interpretazioni, ponendosi dalla parte del popolo, ma contro il regime vigente nel suo Paese, reo di star compiendo una vera e propria strage di civili da mesi. E quindi, detto fatto, accompagnati dai fischi, i ragazzi di mister Queiroz, che nel post gara ha difeso la decisione dei suoi giocatori, intimando ai tifosi insoddisfatti di restare a casa se l’intento è quello di non supportare la squadra, non si sono tirati indietro, a differenza di quanto dichiarato dalle federazioni calcistiche europee, in diverso ambito, che al primo acuto della FIFA, sono tristemente tornate sui propri passi, per il bene della politica.

Qatar 2022, basta una lacrima per bagnare un intero Paese
Mentre nel Khalifa International Stadium di Doha risuona l’inno dell’Iran, le telecamere si muovono lentamente sui giocatori, le cui bocche sono serrate. Poi si spostano per inquadrare le tribune, dove siede una donna, in lacrime. La prima considerazione che salta alla mente è quella che riguarda strettamente il genere e le norme che lo opprimono: nella Repubblica Islamica in questione è vietato alle femmine, in quanto tali, mettere piede in uno stadio. La legge, applicata in numerose occasioni con l’arresto (e in un caso persino il suicidio) di molte attiviste, negli ultimi anni si è poi aperta ad alcuni cambiamenti, prima negli sport minori e poi anche nel calcio (nonostante la divisione per genere approntata negli stadi). Quindi, già di per sé, l’immagine di una donna iraniana che assiste ad una gara di calcio potrebbe essere al limite della rivoluzione. E qui giunge la seconda considerazione, il pianto: le lacrime di una tifosa che ascolta col cuore spezzato le note di un inno che in qualche modo l’ha tradita e la tradisce ancora.

È difficile persuadersi che tutto questo potrà essere presto dimenticato, Inghilterra-Iran resterà scolpita nel grande racconto del calcio, la persistente piattaforma social in cui tutto il globo è immerso non lo permetterebbe, così come è poco logico credere che lo sport e la politica debbano vivere scissi l’uno dall’altro, ponendo su di sé una platonica censura che rinnegherebbe il luogo della memoria: la storia.