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La stagione 1970-71 terminò in concomitanza con la fine del triennio di Alvaro Marchini alla presidenza della Roma. Si voltò pagina e i giallorossi salutarono la nuova annata con una coppa in più in bacheca, il Trofeo Armando Picchi, un nuovo presidente, cioè Gaetano Anzalone, e un “nuovo” allenatore, Helenio Herrera, tornato sulla panchina dei capitolini dopo la brevissima parentesi di Luciano Tessari. Tanto basta per capire che iniziò un’era nuova a metà: nonostante tutto, infatti, la Roma in quegli anni Rometta era e Rometta rimase ancora per diverse stagioni. L’ennesimo avvicendamento dei vertici societari di quel periodo, inoltre, si era verificato nel giugno del ’71, quando Anzalone, dirigente fedelissimo di Marchini, “tradì” a sorpresa il presidente e guidò una fronda nel Consiglio di Amministrazione per far tornare il Mago al centro sportivo di Tre Fontane.
Roma, l’estate 1971: inizia l’era Anzalone
Tra Marchini ed Herrera, è noto, non correva buon sangue e, infatti, i due avevano anche interrotto il rapporto contrattuale in maniera piuttosto brusca, perché l’ex allenatore di Barcellona e Inter aveva insinuato che la Roma avesse vinto lo Scudetto del ’42, fino ad allora l’unico della storia giallorossa, per merito del duce Benito Mussolini (d’altronde, il fondatore e primo patron dei capitolini, Italo Foschi, era segretario della federazione romana del Partito Nazionale Fascista). Un’ombra, questa, che Marchini, ex militante antifascista e partigiano, non poteva accettare e dunque aveva deciso di esonerare il Mago. Una volta che questo fu richiamato per la stagione successiva, però, il signor calce e martello fu costretto a dimettersi per ragioni di coerenza personale (anche ideologica, bisogna dire, d’altronde erano altri anni…) e cedette la società proprio al delfino che gli aveva voltato le spalle, Gaetano Anzalone, per la somma di 1 miliardo e 480 milioni di lire.
Si trattò di una restaurazione a tutti gli effetti, anche perché si ebbe il passaggio di testimone da un comunista, Marchini, ad un democristiano, Anzalone. Il nuovo presidente giallorosso, infatti, incarnava come pochi l’intreccio tra la Dc e l’imprenditoria palazzinara che, ininterrottamente, dal dopoguerra al ’76 rappresentò il principale perno delle giunte della capitale: il dirigente romano aveva fatto le sue fortune nel campo dell’edilizia, era consigliere comunale tra le fila dello scudo crociato ed era approdato nel mondo dello sport attraverso l’Ostiense, società che in quegli anni faceva su e giù tra la Prima e la Seconda Categoria Laziale. Alla Roma invece arrivò nel ’64, dopo la famosa “colletta del Sistina”, come responsabile del settore giovanile. Ben presto, poi, scalò i vertici societari fino a diventare uno dei manager più competenti e lungimiranti, al punto che, come già detto, strinse un legame di particolare fiducia con Marchini.
Anzalone fu proprietario della Roma per ben otto anni, prima di cedere nel ’79 il club a Dino Viola, e con lui i capitolini ritrovarono finalmente la tanto agognata stabilità societaria, cosa che consentì di gettare le basi per la grande squadra degli anni ’80. Grazie infatti alla lunga esperienza maturata sul campo e al suo brillante intuito, il presidente galantuomo fu il primo a mostrare un reale interesse per la Primavera, che da allora in poi fornirà sempre grandi talenti alla prima squadra e che durante la sua presidenza crebbe campioni come Franco Peccenini, Francesco Rocca, Bruno Conti, Agostino Di Bartolomei e Alberto Di Chiara. Fu poi sempre Anzalone a costruire nel ’74 il centro sportivo di Trigoria, dove tutt’oggi i giallorossi si allenano e a dar vita a futuristiche operazioni di merchandising, sul modello di quanto avveniva negli Stati Uniti con discipline come il baseball o il football, per aumentare il fatturato: nacquero così il logo col lupetto, che campeggerà sulle maglie della Magica fino al ’97 e i Roma Shop, negozi di rivendita ufficiale dei prodotti del club, antesignani degli odierni As Roma Store (ma non solo).
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Inoltre Anzalone ingaggiò allenatori come Manlio Scopigno, Nils Liedholm e Ferruccio Valcareggi e acquistò calciatori come Angelo Domenghini, Pierino Prati e Roberto Pruzzo, riportò a Roma Giancarlo De Sisti. Insomma, nonostante la grande parsimonia e l’attenzione alle esigenze del bilancio che caratterizzarono alcune sessioni di mercato, non mancò di certo la grandeur che da sempre aveva contraddistinto la piazza. Purtroppo, però, neanche con lui si riuscì a migliorare i piazzamenti in campionato, qualcuno punta il dito contro presunti imbrogli che in quegli anni venivano compiuti in Federazione («Mi sarebbe piaciuto vincere qualcosa senza fregare nessuno invece ho capito altre cose», dichiarò Anzalone stesso molti anni dopo). Possiamo quindi dire che i risultati continuarono ad essere modesti, ma non mancarono momenti di grande entusiasmo e, soprattutto, alla guida della società giallorossa c’era un presidente che masticava calcio. Non a caso, infatti, Anzalone è tutt’oggi una delle figure più amate della storia del club.
Roma, stagione 1971-21: Herrera vince la Coppa Anglo-Italiana, il suo ultimo trofeo
La stagione 1971-72 si aprì con una campagna acquisti all’insegna dell’austerità: l’unico calciatore che la Roma comprò fu, inspiegabilmente, Giorgio Campagna, un centrocampista semisconosciuto di vent’anni, che militava nel Legnano, in Serie C. La sua esperienza nella capitale fu talmente poco fortunata che, giusto qualche mese dopo, fu ceduto alla Fiorentina nella sessione autunnale. In campionato gli uomini di Helenio Herrera partirono molto bene: vinsero per 1-0 entrambe le partite contro Lanerossi Vicenza e Sampdoria grazie a due gol di Amarildo in chiusura di partita, ebbero una battuta d’arresto a Firenze, perdendo 2-0 contro i viola a causa dell’autorete di Sergio Petrelli e al raddoppio del bomber Sergio Clerici, ma poi si ripresero alla grande battendo 3-1 l’Inter alla quarta giornata. Di fronte agli 80mila dell’Olimpico, don Helenio ebbe la meglio sui campioni d’Italia con un inusuale assetto ultra offensivo, che vide l’impiego di un tridente di sole punte formato da Francesco La Rosa, Renato Cappellini e Gianfranco Zigoni: in maniera a dire il vero imprevista, i tre misero in grandissima difficoltà la difesa guidata da Giacinto Facchetti.
Strano a dirsi, ma il Mago, che a Roma sembrava aver smarrito i suoi poteri, poi quando incontrava la sua ex squadra quasi puntualmente riusciva a compiere miracoli (nella gara di ritorno, tra l’altro, i giallorossi riuscirono a strappare un ottimo 2-2 al Giuseppe Meazza). E infatti i nerazzurri tornarono a casa sconfitti grazie alle reti di La Rosa al 13′, di Cappellini al 36′ e Elvio Salvori all’87’. Gli ospiti segnarono il gol della bandiera al 48′, grazie al solito Roberto Boninsegna. Purtroppo, però, questa grande vittoria non permise ai giallorossi di spiccare definitivamente il volo in quella stagione e, in un noioso replay delle annate precedenti, la squadra guidata da Herrera iniziò a raccogliere risultati altalenanti. Anzi, in due sole giornate, contro Napoli e Milan, i capitolini subirono ben 7 gol senza essere in grado di segnarne uno (contro gli azzurri il passivo fu infatti di 4-0, mentre contro i rossoneri fu di 3-0). Bruciante, poi, fu anche la sconfitta contro la Juventus al Comunale di Torino, in cui i bianconeri si imposero per 2-1 grazie alla doppietta del grande ex Fabio Capello.
In campionato, dunque, la Roma terminò settima con 35 punti: tre lunghezze in più rispetto alla Serie A 1970-71, ma indietro di una posizione. In Coppa Italia, poi, le cose non andarono meglio e, anzi, i giallorossi uscirono al primo turno ad opera dei cugini della Lazio. Per fortuna, però, che nel giugno ’72 la squadra poté riscattarsi con la Coppa Anglo-Italiana. I capitolini furono sorteggiati nel gruppo con Carlisle United, e Stoke City. Grazie a due vittorie e due pareggi, la Roma riuscì a qualificarsi alla finale perché prima tra le squadre italiane, a 14 punti (seconda arrivò l’Atalanta con 13). L’ostacolo per la vittoria della Coppa, però, era rappresentato dal Blackpool, la grande favorita che nella fase a gironi aveva ottenuto quattro successi su quattro.
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Il 24 giugno 1972, in un pomeriggio d’inizio estate piuttosto assolato, i giallorossi disputarono all‘Olimpico la partita conclusiva del torneo contro i rivali inglesi. La Roma riuscì subito a diventare padrona del campo, ma sbloccò la partita solo al 49′ con un tiro al volo di Cappellini. Poi al 75′ Francesco Scaratti fece il 2-0 con una sassata dal limite dell’area e fu presto imitato all’86’ da Zigoni, che chiuse definitivamente i conti con un gol-fotocopia. Non domi, i Tangeriners accorciarono le distanze con Terry Alcock all’89’. 3-1 finale e il vice-capitano Ciccio Cordova poté alzare il trofeo in uno stadio pieno a metà: il Torneo Anglo-Italiano non era infatti una competizione assai prestigiosa (anche se le cronache di quella serata attestano la presenza di numerosissimi caroselli per le strade della capitale), ma sta di fatto che la Roma fu la prima squadra della penisola ad aggiudicarsela e, inoltre, quella coppa fu l’ultima della strabiliante carriera di Herrera.