Una Roma senza verve raccoglie l’ennesima delusione: la cura De Rossi si è fermata

Come si può osservare la delusione offuscata da una sola mezza opportunità? La cura De Rossi ha riportato il sole a Roma e lo ha fatto per mesi, augurando un futuro legato al primo vero obiettivo. E a Roma si è toccato con mano, ma fino ad un certo punto. La delusione di Leverkusen non ha colpe, la scarsa verve di fine stagione deve prendersi le sue responsabilità; e a Roma, adesso è chiaro, servono più calcolatrici che giocatori

Emanuele De Scisciolo A cura di Emanuele De Scisciolo - Direttore Responsabile

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Non si può certo puntare il dito contro chi ha avuto il coraggio di prendere per mano una squadra ridotta alle ossa; non si può certo pensare di poter dare tutta la colpa a chi è riapparso a Trigoria per tentare di risollevare una stagione che sembrava non poter auspicare gloria o speranze. Daniele De Rossi ha avuto la forza e la voglia di riabbracciare Roma, forse, nel momento più complicato vissuto dall’osannato Mourinho, l’eroe portoghese che dopo due stagioni passate a costruire un muro difensivo per i propri giocatori, nelle battute finali dell’avventura capitolina, si permetteva il lusso di glorificare se stesso e declassare i protagonisti del campo. Una caduta di stile incommensurabile ma che, a suon vedute, non faceva altro che celare una verità che di li a poche ore sarebbe poi stata annunciata.

L’esonero di José Mourinho risuonava per le vie di Roma come le campane a morte che scapitano per la città dei Papi quando ne viene a mancare il primo rappresentante (non me ne voglia il Santo Padre, nè tantomeno il buon Luigi Magni che in più pellicole le fece cantare); le stesse campane si fermavano ad osservare il volo di colombe bianche che abbracciavano la palma dell’enunciazione più religiosa; perché il figlio che se ne era andato tornava nella città d’Italia per portare l’illuminazione alla parte giallorossa della Capitale, già frustrata per una mezza stagione da assoluta non protagonista del campionato.

Gioia e lodi per il tanto atteso ritorno facevano da sfondo alle incertezze di tanta, troppa, poca esperienza in piazze importanti. Inutile tessere altre lodi, perché il bel lavoro che Daniele De Rossi é poi riuscito a fare e gli incoraggianti risultati ottenuti dall’ex bandiera romanista hanno ampiamente rinvigorito le speranze e le aspettative di una piazza che, fino a quel momento, restava tormentata dal dubbio emozionale di un “innamorato” che tornava in Portogallo lasciandosi tutto alle spalle, nonostante un’annata non diretta come tutti si aspettavano.

Speranze che crescevano e che diventavano realtà grazie ai risultati e alle giocate. Una squadra che – finalmente – iniziava a non aver più paura di quel maledetto pallone; che provava a far giocate e a muoversi sul campo da gioco; una squadra che, mantenendo il vigile rigore della costruzione dal basso, tornava ad esaltare le qualità dei singoli. Come Leandro Paredes, come il caro vecchio Stephan El Shaarawy; santo cielo, come Lorenzo Pellegrini! Goal, punti e calcio: una Roma che “giocava a pallone” non si vedeva più dai tempi di Luciano Spalletti, con le dovute distanze, si capisce, dal calcio perfetto dell’ultimo (anzi del penultimo) Campione d’Italia. Poi, però il buio, l’indecisione, l’inefficienza, la scarsa concentrazione, la paura e, ahimè, l’ennesima delusione.

Gli anni passano…

Gli anni passano ma le cose non cambiano. A Roma, poi, la clessidra sembra essere diventata una certezza fatale e risoluta di un destino sempre certo, sempre scritto. Li, dove le calcolatrici sono ormai cosa vecchia e ricordano trofei vintage dallo scarso valore; li, a Trigoria, dove i conti si preferisce farli con le sole dieci dita disponibili, senza mai tentare di guardare avanti sfruttando una tecnologia tipica, forte e vecchia, che negli anni 80′ rappresentava il lusso dei soli ricchi manager. Perché, davvero, sarebbe bastato fare 2+2 per provare a calcolare la matematica di una Champions che, grazie alla cura De Rossi, ad un certo punto sembrava davvero cosa possibile, quasi fatta.

Soprattutto dopo che in Italia addirittura in 5 potevano far giocare il Bel Paese nell’Europa che conta. Troppo bello per essere vero, obiettivo troppo facile da raggiungere fin li in stagione. La concentrazione e la classe netta degli obiettivi di un allenatore che arrivava a Roma a tempo e che faceva esplodere di domenica in domenica quella vena resa famosa dai social, si ammorbidiva, quando il primo errore, frutto della classica esaltazione giallorossa, anticipava i tempi della gioia: “I Friedkin confermano il futuro di De Rossi alla Roma!”. Un annuncio arrivato, forse, troppo presto, anticipando una semifinale fondamentale, cercando di esemplificare un futuro con l’esaltazione della conferma. E a Roma si è sentito, a casa De Rossi figuriamoci.

Inutile fare i conti, adesso. Più facile riportare considerazioni: perdere con il Bologna all’Olimpico fu un errore, ma come fare per attaccare una corazzata che la Champions l’ha meritata davvero? Ok, andiamo avanti. Perdere due punti con la Juventus ha guastato i piani, ma è pur sempre la Juventus, che diamine. Si va a Bergamo, una finale vera e propria ( e che sarebbe potuta essere davvero una finale, europea per giunta), ma santo cielo come si fa a vincere contro l’Atalanta oggi?

Terminate le giustificazioni resta il rimpianto di una Roma che non ha saputo affrontare le vere gare finali di una stagione che doveva riportare la squadra e la piazza a giocarsi un’Europa ormai dimenticata e che oggi porta tutti i tifosi a prendere in mano – finalmente – quella maledetta calcolatrice per fare i conti che mancano per provare a raggiungere il primo obiettivo stagionale osservando, però, i soli e possibili “errori delle altre”. La verve giallorossa ha raccolto l’ennesima delusione; e, si, la bella cura di Daniele De Rossi si è fermata proprio sul più bello. Non ho parlato delle ultime gare di Europa League ma, vi garantisco, non le ho certo dimenticate.

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